Il paese dei Matti
Per tutte le Marche ed anche oltre i confini della regione, il nostro amato borgo fu per lungo tempo scherzosamente noto come "il paese dei matti".
I nostri nonni e bisnonni ce lo raccontano e lo testimoniano, e anche se non si sa quando ebbe inizio questa allegra fama, si narra che già era diffusa negli ultimi decenni dell’Ottocento, mantenendosi inalterata fino al termine della prima guerra mondiale.
Tutt’oggi però, gli abitanti dei centri vicini la "identificano" così, e si sente spesso per le vie del borgo rieccheggiare l'eco dell’antico detto "a Corinaldo se non sono matti non ce li vogliono"!!!
Un giornalista e celebre fotografo quale fu Mario Carafòli (1902 – 1986), si è divertito a raccogliere con passione e precisione le tante storie curiose suscitate da questo popolo di mattachioni.
Sono infatti preziosi i suoi due volumi dedicati all’argomento: "Storie e storielle di Corinaldo e dintorni" e "I matti di Corinaldo".
Durante la visita, passeggiando, vi faremo vedere le testimonianze legate ai racconti dei "matti di Corinaldo", e ve ne racconteremo alcune , ma vogliamo intanto stuzzicare la vostra curiosità, dandovi qualche anticipazione su questi tipi, innocui e anzi simpatici, che abitarono cosi numerosi il borgo… e che chi ha avuto la possibilità di conoscere, ancora oggi ne conserva prezioso il ricordo.
Ah.. state tranquilli però… Beatrice e Lucia sono Corinaldesi... simpatiche e burlone, ma non pazze! …
dopo la visita guidata con noi, siamo certe che anche voi darete ragione al giornalista Carafoli che, in un altro libro che ha scritto, ha battezzato il borgo come il "Il Paese più bello del Mondo".

Cominciamo con una delle più popolari perché, rievocata ancora oggi durante l’importante rievocazione storica, (ogni anno terzo week end di luglio), ormai giunta alla !!! edizione, successivamente è poi stata dedicata una via a questa storiella, e percorrendo l’affascinante Piaggia ,avremo la possibilità di vedere il famoso Pozzo.
Fu fatto costruire dal tiranno di Corinaldo, Antonello Attaccabriga, per approvvigionare le abitazioni limitrofe, successivamente interrato con la ristrutturazione della scalinata, è del 1980 la versione che vediamo oggi e che è protagonista appunto della cosidetta “Contesa del Pozzo della Polenta”.
L’ antica diceria racconta che, in tempi ormai lontani, un contadino salisse lungo la scalinata (La Piaggia),che ha oggi più di 100 gradini, con un sacco di farina di granturco sulle spalle.
Affaticato e sfinito , giunto nei pressi del pozzo, appoggiò il sacco sul bordo per riprendere fiato ma questo si scucì e tutta la farina finì nel pozzo, dando la possibilità ai corinaldesi di "servirsi" di polenta per molto tempo a venire. Da picchiatelli a geniali il passo è breve: i corinaldesi, per nulla infastiditi dalla fama di "polentari" hanno preso spunto dalla storiella per l'annuale rievocazione.

Fra Corinaldo e la vicina Montenovo, ora Ostra Vetere, esisteva un'antica rivalità che durava da tempo. I corinaldesi, decisi ad averla vinta una volta per tutte, ebbero a dir loro un ‘idea geniale.
Presero un tronco di fico, lo scavarono e costruirono un cannone, posizionato , cosi si tramanda, sul Torrione della Rotonda, lo puntarono entusiasti verso il paese rivale.
Il giorno dello sparo di cannone tutti si radunarono sulle mura per assistere alla caduta di Montenovo. Sette corinaldesi , senz’altro i più coraggiosi, reggevano il cannone mentre il capitano dava fuoco alla miccia; dopo un tremendo boato, al diradarsi del fumo, i sette “matti” erano a terra privi di vita. Il capitano, miracolosamente scampato, si dichiarò più che soddisfatto dell'esito dell'operazione esclamando: "Il botto era così forte che qui ne sono morti sette!, pensate un po' quanti ne avrà uccisi a Montenovo..." . Ordinò subito ad un militare di andare a controllare.
Anche Montenovo era circondato dalle mura e non era facile accedervi, l’incaricato, si mise ad ascoltare da fuori della porta,…e udi dei numeri “ 4, 5, 8,..etc” , perché al di là della porta c’erano dei cittadini che giocavano all’antico gioco della “Morra”,….il soldato, tornò a Corinaldo, ancora più entusiasta e dichiarò: signor Capitano, “là il giorno dopo, ancora contano i morti!!!”
Sempre le liti tra i due paesi confinanti, sono da spunto per questa vicenda.
Gli abitanti di Montenovo decisero di forgiare delle campane nuove che divennero ben presto l'orgoglio del paese. Erano così fieri delle loro campane che le facevano suonare ad ogni ora del giorno e della notte, contando anche sul fatto che il loro scampanìo avrebbe dato non poco fastidio ai corinaldesi, da sempre loro acerrimi nemici. I quali, stanchi ed invidiosi, escogitarono un "geniale" sistema per porre termine alla "tortura"; piantarono delle canne di bambù e ne fecero una siepe fittissima, convinti di poter arginare una volta per tutte il provocante rintocco.

Durante la visita, potrete vedere la “Casa di Scuretto”, con tanto di numero civico, pazzia o furbizia di una storia realmente accaduta?….a voi la decisione!
Gaetano, detto Scuretto, era un ciabattino, un uomo semplice, a cui piaceva molto ,tra una scarpa e l’altra ,farsi un bicchiere di vino.
Aveva un figlio, emigrato in America per far fortuna, che periodicamnete gli mandava del denaro per poter costruire una casa a Corinaldo.
Scuretto, però , quando riceveva questi denari, si divertiva sempre nelle osterie del paese, con i suoi amici, tanto che il figlio, insospettitosi per la lungaggine dei lavori di costruzione, chiese al padre una foto della nuova casa.
Scuretto non si perse d'animo e si organizzò così: costruì la facciata, ci mise il numero civico e si fece fotografare affacciato alla finestra.
Spedi la foto al figlio….dicendo che i lavori come poteva vedere erano iniziati, ma non erano ancora conclusi. Arrivarono ancora soldi, ma la casa rimase così com'è, senza solai, pareti di fondo e tetto.

Anche qualche frate cappuccino del nostro convento, respirando l’aria di Corinaldo, finiva per acquistare spirito allegrotto e mattacchione.
Si ricorda particolarmente un certo Padre Pietro, presente intorno agli anni 1910-
15, il quale si dedicava volentieri a scongiuri ed esorcismi. La sua specialità più apprezzata era però quella di scacciare i topi dalle case con certe sue formule e benedizioni, che ripeteva e impartiva scrupolosamente in tutti gli ambienti. Per questo veniva spesso chiamato dai contadini, molto esposti alle invasioni di questi roditori, specie nei granai e nelle stalle. Com’è naturale, i bravi coloni lo accoglievano festosamente e finite le benedizioni gli servivano un buon pranzetto.
Tipo di frate uscito da una novela del Trecento pieno di appetito e buon umore, al momento di andarsene chiamava il “capoccia” da una parte e gli diceva: “I sorci andranno via vedrete. Aveteci fede. Però mi raccomando: teneteci il gatto”. Dopo aver messo a posto lo stomaco, Padre Pietro metteva a posto anche la coscienza.

Anche di costui si ricorda bene la persona ma non si conoscono le generalità anagrafiche. Birubàra, detto anche Birone, non sapeva né leggere né tenere una penna in mano. In compenso sapeva tenere bene la vanga. Pur abitando in paese, faceva il bracciante agricolo e ogni mattina partiva presto per la campagna. La sera, tornato entro le mura medioevali, la impiegava a ritemprarsi con la cura delle acque. Anche vegetali, s’intende, tratte dai frutti di un’antica pianta e vendute di solito a fojette in un considerevole numero di esercizi cittadini.
Un giorno d’estate lo colse la voglia di fare un lungo viaggio. Lui, che non era mai uscito dal territorio del comune, si sarebbe spinto nientemeno che fino a Senigallia: ben venti chilometri! Voleva vedere il mare da vicino. Pazzie, pazzie per quei tempi. Salì dunque, quando il cielo cominciava a colorirsi, sulla “Messaggeria” dei Bucci, guidata allora da un certo Gropponi.
Seduto in serpa accanto al cocchiere, Birubara discese in poco meno di quattro ore alla nostra piccola capitale mèsena, godendosi il paesaggio col sole negli occhi. Non è possibile ricostruire la sua giornata, spesa lungo il mare e per le strade della metropoli dei Galli Senoni. Fatto sta che ha metà del pomeriggio il nostro Birubara, detto anche Birone, felice e stordito, anzi addirittura ebbro (non certo unicamente di sole), ritrovò non si sa come la messaggeria, vi salì sopra, si ficcò in un cantuccio dei due sedili e vi si addormentò di colpo.
Risvegliatosi dopo che la vettura era da qualche tempo partita, sbirciò fuori e si accorse di una cosa straordinaria: il sole splendeva press’a poco sulla testa dei due Cavalli. “Ferma, Gropponi, ferma! Ma co’ fai?”Il conducente tirò le redini e scese a vedere cosa era successo. “ Ma te me sta arportando a Sinigaja! N’vedi che ‘l sole è li davanti coma stamattina?”. “Ma sta bono. Birone, te sei imbriago fragido”. “No,no, io vojo artornà a casa. Famme smontà”.
Non ci fu verso. Birubara volle scendere e si avviò nella direzione opposta al sole, cioè…verso Senigallia. Quando se ne rese conto era già sera. Per tornare a Corinaldo dovette camminate tutta la notte.

Lenci Francesco da ragazzo fu detto dapprima Cecco. Più tardi, visto che cresceva poco di corpo e ancor meno di cervello, gli venne il doppio diminutivo di Cecchettino (che a Corinaldo si pronuncia con una “ti” sola). Per il suo peculiare abbigliamento lo si potrebbe dire un precursore della più evoluta gioventù attuale (1982). La sola differenza sta nei calzoni, che non erano di tela turchina; ma in quanto a sporcizia e a sbrindelli, niente da invidiare ai giovanotti ed anche a certe ragazze di oggi. Per il resto, tutto in regola: lunghi capelli lendinosi e barbaccia incolta. Ah: un’altra differenza: portava un cappellaccio bisunto, indumento oggi rigorosamente bandito. Pare che avesse una casa con relativa moglie e figli, però la sua vocazione esistenzialistica lo portava al vagabondaggio continuo. Lo si vedeva in giro camminare tutto curvo, con un sacco in spalla e un bastone in mano. Dentro il sacco o bisaccia che fosse, insieme a stracci, rottami ed altri rifiuti (materiale, forse, di un suo piccolo commercio), portava pane, frutta, una bottiglia di vino ed altre cibarie che riusciva a procurarsi in campagna dai contadini. D’estate dormiva all’
aperto: vicino ai pagliai, o in una capanna, o sotto un biroccio; d’
inverno dentro le stalle. Quando circolava attorno al paese, i ragazzi più grandi lo infastidivano, quelli più piccoli ne avevano paura. In una recente trasmissione della rai su Corinaldo si diceva al riguardo: Le madri se ne servivano come spauracchio per la figliolanza bizzosa: “Ti faccio portar via da Cecchetino!”. Anche a me, quando ne combinavo qualcuna, veniva minacciato il sacco di Cecchetino. Una volta uscito con la mamma fuori di porta, sul viale detto “Dietro le Monache”, stavo frignando e recalcitrando per non so quale motivo, quando ecco che si vide avanzare Cecchetino, lento, curvo, col sacco addosso e la barbaccia tenebrosa. “E’ vero che lo portate via nel sacco, se non la smette, questo bambino cattivo?”, fece la mamma rivolta al vagabondo. Cecchetino si fermò, alzò il suo sguardo un po’ losco verso mia madre, che allora era una bella donna sulla trentina, e rispose con voce cavernosa: “Io portaria via ma vò’” (ossia: “io porterei via voi”).
Come vedete, gli antichi matti di Corinaldo erano matti, sì, ma fino ad un certo punto.
Le storie sono tratte dal libro "I matti di corinaldo" di Mario Carafoli.